La disintermediazione

La diffusione dei media digitali come dispositivi autoriali (ovvero dispositivi che ci consentono di raccontarci, scrivere ed essere “autori”) porta con sé la possibilità di parlare senza necessità di una forma di mediazione verticale o formale Così diceva Martel nel 2015 «Internet è decentralizzato, decentrato, plurale e caratterizzato dalla disintermediazione. E’ improbabile che si possa tornare a un modello elitario, in cui il giudizio è nelle mani di un ristretto numero di critici, cosa che faceva già infuriare alcuni personaggi dei romanzi di Balzac» (Martel, 2015, p. 266). Fino a qualche decennio fa, infatti, la logica della comunicazione “mainstream” (uno a molti) o centralizzata prevedeva alcune condizioni imprescindibili: avere un apparato di trasmissione, essere legati a una redazione (ad esempio quella di un giornale, di un telegiornale, di un programma) saper usare gli strumenti di “regia”. In cosa consiste la disintermediazione? Senza dubbio nella perdita del valore centrale dell’apparato per “essere in diretta”, poiché senza necessità di mediazione professionale possiamo andare in streaming, mandare messaggi e video, diventare registi e autori (senza dubbio portando in gioco il tema dell’autorevolezza e della capacità di comunicare in maniera selettiva e competente). Due esempi possono venirci in aiuto. La lettura di un libro particolarmente interessante può diventare oggetto di racconto in diverse forme: una recensione personale nel social network Anobii (social interest driven nella categorizzazione introdotta da Ito e colleghi), un post nel mio blog in Wordpress, un commento alla pagina Facebook dell’autore del romanzo come occasione di dialogo (senza passare dalle “lettere all’autore” o dalle rubriche più formali di un quotidiano), scriverne sul mio profilo in Facebook, Twitter o Instagram, magari con una foto della copertina e un commento scritto. Ancora, una video-recensione (il riferimento qui è alla logica dei “booktuber” impegnati nella produzione di video brevi sulla trama e la bontà del libro) o dei veri e propri book trailer. Il secondo esempio ci riporta alla dimensione della testimonianza e della presenza sul territorio: quando assistiamo a eventi importanti o inattesi (in termini positivi o negativi), possiamo documentare, tenere traccia, o meglio condividere quella traccia anche in tempo reale, come accade nella logica di Youreporter (“sei tu il reporter”) oppure delle dirette Facebook con diversi accenti. Il tema diventa importante: posso andare in diretta e raccontare ciò che accade in tempo reale senza la necessità di una mediazione professionale (come nelle dirette del telegiornale), è sufficiente un profilo in un social e una connessione attiva La disintermediazione (Missika, 2006), in parole molto semplici, prevede la pubblicazione di contenuti, in pochi clic, senza dover passare dalle normali strade ufficiali tipiche del circuito professionale (televisione, radio, quotidiani), implicando un maggiore accesso, ma rischiando al contempo di generare confusione (Rivoltella, 2015). «La deprofessionalizzazione delle attività dell’informazione al tempo dei media digitali e sociali rende ciascuno di noi un giornalista: basta trovarsi sul teatro degli eventi con uno smartphone in mano» (Rivoltella, 2017, p. 25). Si tratta di recuperare gli aspetti deontologici tipici del professionista, che passano attraverso un’educazione attenta all’altro, alla comunicazione, ai registri e ai codici narrativi. La disintermediaizone ci consegna una occasione per essere coraggiosi e fermi (parlare, non tacere, denunciare), ma anche una grande responsabilità: avere la parola richiede il rispetto delle regole della conversazione. «Broadcast yourself» è forse lo slogan più rappresentativo per sintetizzare il concetto.
Alessandra Carenzio
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