Identità digitale: il rapporto con l’altro

Ormai da una decina d’anni, il dibattito sui media digitali deve tener conto dell’aspetto “social” che questi offrono ai propri utenti. Una prima considerazione la possiamo condividere a partire dal nome di alcuni prodotti di successo, come ad esempio iPhone, iWatch, iPad; tutti si presentano con il pronome “io” quale suffisso (in inglese: I), facendosi intendere così personal media. In effetti, grazie anche alla loro portabilità e indossabilità, sono migrati nel quotidiano delle nostre vite, fino ad essere gli schermi attraverso i quali ciascuno di noi organizza le proprie pratiche comunicative e attraverso i quali formuliamo e condividiamo le nostre identità. La riflessione si amplia necessariamente nel momento in cui dobbiamo prendere in considerazione la presenza dei Social media quali Facebook, Twitter, Instagram e YouTube che hanno portato a forme e modalità completamente nuove di comunicazione ed espressione di sé. I social diventano il palcoscenico attraverso il quale esprimere la poliedrica natura identitaria dei giovani che sfugge ad ogni forma di omologazione e schematizzazione. Ciascuno può presentarsi con la sua peculiare storia e irripetibile esperienza di vita che ora acquisisce la possibilità di esprimersi pienamente nei molteplici spazi virtuali messi a disposizione dalla rete. Forse non è un caso che, soprattutto tra i più giovani, stiano diffondendosi sempre più canali tramite i quali divulgare le proprie storie. Queste possono essere delle brevi sequenze di immagini con didascalie nella forma di hasthag, o dei brevi filmati che danno quasi l’impressione di essere “in presa diretta” nella vita degli altri, oppure ancora dei filmati più curati e realizzati per condividere una particolare passione. Di fatto, la Rete presenta differenti e numerose modalità per condividere le proprie narrazioni e così, tra le altre cose, cercare di condizionare l’impressione che gli altri possono avere di noi. Non è certo una novità il fatto che ciascuno di noi cerchi di costruire un’immagine di sé che possa piacere ai propri amici e conoscenti, e neppure il fatto che gli altri possano influenzare l’idea che noi abbiamo di noi stessi. La novità del Web è semmai quella di una identità digitale fluida, nel senso che può essere detta il frutto di una costruzione condivisa. Pensiamo ad esempio ai tanti selfie pubblicati sui profili personali, in cui spesso l’utente è ritratto in compagnia di altre persone, ma possiamo fare pure riferimento alla pratica della taggatura; un amico o un conoscente qualsiasi, dall’esterno, può di fatto fare in modo che un contenuto mediale (foto o testo) compaia sul mio profilo. In definitiva, l’identità può essere vista come l’esito di un processo di co-costruzione, di cui l’utente è il principale ma non unico artefice. Certo è che i diversi “volti” della nostra identità, sono tutte parte di quella realtà complessa, di quel mistero, che è la persona. In questo “gioco di maschere” in cui si assumono identità diverse adatte a situazioni differenti, il fatto che sia possibile vivere vite parallele in un costante stato fluido e malleabile porta con sé il rischio di non riuscire a comprendere pienamente se stessi e le persone che ci circondano. Sul piano dell’identità religiosa tutto questo si traduce, specialmente nei giovani, in due modalità identificate da Luca Bressan (2016) in quella dell’anonimato e il nomadismo. Con la prima si vuole far riferimento alla tendenza a voler stare dentro la tradizione cristiana solo marginalmente, senza arrivare ad assumere obblighi o impegni. Questa appartenenza rarefatta avviene “secondo canoni e coordinate decise dal singolo individuo, avendo lui e il suo bisogno come punto gravitazionale” in cui egli diviene un consumatore che sceglie quali elementi della fede ritiene più utili, ignorando quelli che sente più lontani ed estranei. Il nomadismo, invece, si riferisce all’abilità di abitare più spazi sociali nel medesimo istante muovendosi tra di essi con velocità sorprendente. Attraverso questo costante multitasking si può arrivare a vivere un tempo contraddistinto dal continuo “susseguirsi di picchi emotivi, di esperienze forti che segnano, ma che faticano a essere collegate tra di loro, che difficilmente [...] vengono connesse e unificate in una trama che dica il senso della loro storia” (2016:8). Nel mettere in evidenza i rischi e le difficoltà di questa condizione, non possiamo tralasciare anche una possibile pista di opportunità; ad esempio, ci sembra che i social network offrano all’utente una reale occasione di creare opportuni Sé possibili. Ciò significa che il digitale, quando rientra in un adeguato sguardo educativo, può essere anche un valido alleato per aiutare i giovani nel percorso di crescita, facilitando i processi di cambiamento. Si tratta di avere l’adeguato atteggiamento di chi, anche nel digitale, può aiutare le persone a confrontarsi con il mondo, a chiarire i nuovi bisogni emergenti, a riconoscerli e a viverli in scenari positivi. La sperimentazione dei Sé possibili, se accompagnata da educatori competenti e preparati, può essere una ricca occasione per conoscersi e vivere i contesti nella maniera più adeguata. Proprio in relazione di questo bisogno di senso, di cui ciascuno di noi è portatore, e della ricerca di una storia con la “S” dentro la quale riconoscersi, l’educazione ai media può essere efficace.
Marco Rondonotti e Elisa Farinacci
Bibliografia
Aroldi P., Connessioni quotidiane, EDUCatt, Milano 2016. - Riva G. I social network, Il Mulino, Bologna 2010. - Ricoltella P. C. Il volto "sociale" di Facebook (a cura di) Daniele Vinci, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2010. - Bressan L. "Prove di cristianesimo digitale. Giovani e fede in Italia (a cura di) Rita Bianchi e Paola Bignardi, Vita e Pensiero, Milano 2016
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