La Domenica di Pasqua 2023

Pubblicato il da ricarolricecitocororo - il mio canto libero

L'Omelia di mons. Adriano Cevolotto al Carcere delle Novate a Piacenza

Ho scelto quest’anno per la celebrazione pasquale la pagina evangelica dei due discepoli di Emmaus, che la liturgia propone la sera di Pasqua. Anche noi come questi due discepoli possiamo incontrare il Risorto all’opera, in un gesto di straordinaria tenerezza: li va a cercare (ci viene a cercare) e li incontra con pazienza dove si trovano: in fuga. Sulla strada del loro allontanarsi.

Questi due discepoli hanno alle loro spalle un tragico venerdì, nel quale hanno toccato il fondo: il fallimento loro con quello di Gesù, l’infrangersi delle loro attese e speranze… ci hanno perso la faccia. Con quale coraggio torneranno a casa?

Ciascuno di noi ha il proprio venerdì: cioè un’esperienza fallimentare nella quale arriviamo a pensare: “ho sbagliato tutto”. Agli altri dico che non è stata colpa mia, che sono stato ingannato… ma lo dico per convincermi, per alleggerire la coscienza e, soprattutto, per salvarmi la faccia. In realtà la faccia, la fiducia di tanti l’ho persa. Magari dei mie cari. Ti trovi in quella situazione per la quale sogni di poter riavvolgere il nastro per rigiocare la partita della vita. Ma è solo un’illusione. Questa vita è bella e dannata insieme: quello che hai fatto, è fatto. Resta. Ti rimane addosso. Noi non conosciamo che una via di uscita: la fuga. Ma si può vivere scappando?

Gesù si affianca loro come un forestiero. Uno che sembra estraneo a quello che è successo: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai cosa vi è accaduto in questi giorni?”. Spesso siamo noi ad estraniarlo dalla nostra vita. In realtà Gesù si dimostra molto interessato a loro. Si fa raccontare: chiede che gli consegnino i loro stati d’animo. Gli interessa poco la cronaca, gli interessa ciò che stanno vivendo. Permettono a questo sconosciuto di entrare nel loro cuore e nella morte che hanno dentro. E Gesù, piano piano porta luce e calore (“Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via…?”). Quando qualcuno ti ascolta veramente, non sei più solo e si scalda il cuore. Notiamo che Gesù non dà loro ragione: perché noi vorremmo che ci dessero ragione, che ci commiserassero, che prendessero le nostre difese. Spontaneamente cerchiamo costoro. Invece Gesù li rimprovera: “Testoni!”. Non siete capaci di vedere, di capire. Li scuote. Chi ci vuole bene fa verità, non asseconda l’inganno.

Fintantoché non sono disposti a farlo entrare con loro, a fermarsi a tavola non succede niente. Gesù chiede spazio, tempo, disponibilità a farlo diventare familiare. “Dai resta con noi!”.

Eccoci alla scena che abbiamo davanti a noi: è una parte di un’opera fatta in più scene, di un pittore morto non molto tempo fa: Arcabas. Questa è la scena centrale: “lo riconoscono quando spezza il pane”. Il volto di Gesù, che nelle scene precedenti è una specie di maschera ora prende i lineamenti precisi. Ma il discepolo di destra, raggiunto dalla luce che illumina Gesù, comincia a distinguerlo e lui stesso viene illuminato. Nel suo volto c’’è serenità e stupore. È colto nel gesto di versare il vino, ma attirato dal volto di Gesù. L’altro è ancora in ombra, non ancora illuminato e con lo sguardo perplesso. È così la vita: entrambi hanno fatto il medesimo cammino affiancati dallo sconosciuto, entrambi a tavola, ma ognuno ha il proprio percorso. Per questo è importante stare insieme. Non si fa molta strada da soli.

Noi diamo per scontato che ci sia la messa in carcere. A ben pensare è qualcosa di straordinario che dice come Gesù accetta l’invito ad entrare fato anche da chi è detenuto. “Resta con noi!”: e Gesù ci sta. In qualche modo anche lui si fa incarcerare. Abita dentro a queste mura. Lo spezzare il pane, che è l’eucaristia che noi celebriamo, è il momento nel quale il volto di Gesù si rivela a noi come una vita donata. A tutti. Qui è raccolto l’amore senza condizioni del crocifisso risorto. Non chiede nessuna garanzia per farsi presente e offrirsi come pane. Gesù ogni volta che si rende vivo e presente ci conferma che noi valiamo più dei nostri fallimenti. Ci fa giungere a Pasqua.

Il risultato, il miracolo che scaturisce da questo incontro inaspettato e immeritato è raccolto in quel ritorno in fretta. Termina la loro fuga. Tornano sui loro passi e guardano al loro venerdì come un giorno santo: non è l’ultimo giorno della loro vita. Non è l’ultima parola. È la penultima perché possono viverla con Gesù che apre un cammino nuovo. Possono tornare a Gerusalemme per una strada nuova che si percorre in maniera diversa perché parte dall’esperienza del fallimento. Ma è una edizione nuova di sé. Generata dall’incontro con Gesù che li ha raggiunti nella loro tristezza e nel loro fallimento.

A partire dall’esperienza di questi due discepoli ci auguriamo Buona Pasqua: il Risorto ci raggiunga laddove ci troviamo per farci scoprire che il suo amore è capace di farci ritornare testimoni del suo amore gratuito e senza condizioni.

L'omelia di mons. Cevolotto in Cattedrale a Piacenza

Venerdì ci siamo imbattuti nell’esperienza della ‘fine’. E ci siamo consegnati ad un’invocazione: “Vieni, Signore. Non tardare a manifestare la tua gloria”. La ‘fine’, qualunque essa sia, ci è insopportabile.

Perché nella vita l’arco temporale che intercorre tra il venerdì di morte e la domenica di risurrezione è tutt’altro che breve. Non sono ventiquattro ore. Non è assolutamente percepito così. Al contrario nella liturgia possiamo essere giocati dal “sapere come va a finire”. Il sabato diventa così un semplice passaggio. Non ci disturba affatto: è il giorno dei preparativi per la festa. Invece, come accennavo, il sabato della vita è attraversato da ben altri pensieri, dubbi, sofferenza. È il giorno del pesante silenzio di Dio, della sua sconfitta. Una preghiera che sembra non ascoltata mette veramente alla prova la nostra fede, la fiducia nel Signore, nella vita, ultimamente nel futuro. “Noi speravamo…” ripetiamo con i due di Emmaus.

Per questo motivo venerdì ci siamo invitati a custodirci nella preghiera: custodire la fede di chi è messo particolarmente alla prova. Custodire l’attesa di chi la morte ha ucciso anche possibili desideri. Custodire la speranza che la ‘fine’ possa diventare un vero inizio.

Il primo annuncio pasquale nei discepoli di Gesù è parso un vaneggiamento delle donne. Eppure ha spinto qualcuno a correre al sepolcro, perché non sembrava vero. Ma sarebbe stato bello! Perché è proprio questa l’esperienza che facciamo. Diamo credito a quello che succede (“purtroppo è vero!”), non altrettanto ci è spontaneo credere a ciò che, imprevisto, nasce o rinasce.

Speriamo che sia Pasqua, ma non è per nulla facile crederci. Non vorremmo illuderci un’altra volta. Allora in cuor nostro ci diciamo che è improbabile (se non impossibile). È proprio vero che siamo più cristiani della croce, che del Crocifisso Risorto.

A conferma potremmo fare molti esempi: ce lo siamo più volte richiamati guardando quello che sta capitando nelle nostre parrocchie e nel nostro presbiterio. Pronti a far i compianti funebri, i lamenti sterili e nostalgici, strenui difensori di tradizioni impossibili da sostenere, quanto dubbiosi o scettici a immaginare questa una stagione di vita, un tempo di novità per la vita ecclesiale. La medesima fatica la sperimentiamo nel giudizio verso le nuove generazioni. Ne cogliamo le deficienze (non sono… non sono più…), piuttosto che sforzarci di cogliere i germogli. Non è differente l’atteggiamento che riserviamo alle persone con cui abbiamo a che fare: li inchiodiamo sul loro passato, precludendo loro qualsiasi possibilità di cambiamento o di riscatto.

Credere e professare la vittoria di Gesù sulla morte e sul peccato, qualunque sia la morte o il peccato, ha conseguenze molto precise. È vero che ciò che rinasce non è immediato, che necessita di quel ‘benedetto’ sabato. Troppo spesso lungo da tramontare. Ma se non coltiviamo la speranza e l’attesa niente riusciremo ad intercettare, a riconoscere, a coltivare.

Correre verso il sepolcro vuoto non è la stessa cosa che aspettare impauriti, chiusi entro quattro mura. Dove cresce solo la nostalgia e la paura di quello e di quelli di fuori.

Per questo motivo la Pasqua chiede un ulteriore necessario passaggio: la Pentecoste. Perché senza la forza dello Spirito Santo, che il Risorto ci assicura, rimarremo la comunità del lutto e del rimpianto. Ma così affossiamo la forza della Pasqua. Smentiamo ciò per cui oggi ci siamo ritrovati e celebriamo.

Allora che sia Pasqua per ciascuno e ciascuna e per tutt’intera la comunità. Perché solo così c’è vita. Buona Pasqua.

 

Con tag Bibbia, Chiesa, Società

Per essere informato degli ultimi articoli, iscriviti:
Commenta il post